Adattamento teatrale Aida Talliente
direzione musicale Simone Serafini
la band
tromba Mirko Cisilino
sax alto Simone Bastianutti
sax tenore e clarinetto Filippo Orefice
trombone Maurizio Cepparo
chitarra Luca Dal Sacco
pianoforte Francesco De Luisa
contrabbasso Alexia Rosso
disegno luci Luigi Biondi
tratto da ” Lady Sings The Blues” l’autobiografia di Billie Holiday – Edizione Feltrinelli 2008
Un ringraziamento particolare a Teatro Club Udine
LADY SINGS THE BUES
Una donna. Un gruppo di musicisti seduti accanto a lei. Vecchi microfoni, vecchi dischi sparsi, sedie accatastate, bicchieri qua e là. Una scritta luminosa che scende dall’alto: “ON AIR”. Siamo in un luogo intimo: la sala di una vecchia radio anni 50. Dalla penombra e dal silenzio si sente suonare un disco: “Strange Fruit” e le prime parole confuse di una voce femminile. Una voce roca, rotta. E’ lei che parla: la donna. “Il mio più grande sogno è…”, così la donna inizia il suo racconto, come fosse l’ultima intervista, l’ultimo “canto” della sua vita. E dopo questo breve inizio è la musica della band a strappare il silenzio e ad accompagnarci nei sobborg hi di Baltimora, nei jazz club di tutta New York, nelle città da una costa all’altra dell’America e negli anni tormentati delle violenze razziali. E’ dentro questo mondo che nasce la voce di Billie Holiday, quella voce che più di ogni altra è riuscita a raccontare con sincerità ogni sorta di esperienza vissuta. Quella voce così meravigliosamente umana e piena di franchezza che diventa l’urlo di un cane randagio, l’urlo dell’amore e della fame, l’urlo di ogni cicatrice che segna il corpo e il cuore, l’urlo delle tante strade percorse. Urlo e Canto divisi da una linea molto sottile, ed è dentro questa linea che nasce fragile e bellissimo il suo blues.
SGUARDI CRITICI
Teatro-canzone o recital con sound. E’ difficile, e forse superfluo, imbrigliare in una categoria l’originalità dello spettacolo “The lady sings the blues”, che unisce il monologo spezzato di Aida Talliente, sempre strepitosa, e il blues live di una band affiatatissima di otto strumentisti, guidati da Simone Serafini.
Ma un collante c’è in questo scivolare tra loro della parola che racconta e del tappeto sonoro che le fa eco. Ed è l’omaggio a distanza, a suo modo straniato, che dei giovani artisti bianchi del Duemila tributano alla vita e al prodigio di una regina statunitense del canto “nero”. Billie Holiday, cioè, e Lady Day per definizione che, nata a Baltimora nel 1915, riscattò nell’arte di una voce venata di straziato silenzio il disastro di un’esistenza infelice, ritmata da violenze, miseria, burrasche sentimentali e dissipazione da stupefacenti, fino al capolinea di un precoce congedo dal mondo a 44 anni. Ed è dunque dalla sua tribolazione che tutto sembra scaturire, in una scena che mima l’oscurità da Night-Club anni Trenta, tra lampadine accese, trovarobato alla rinfusa per la band e aria fumosa da immaginare. Di lato, appollaiata su un trespolo, la bocca quasi a baciare il microfono, i capelli ingentiliti dall’immancabile gardenia bianca, l’attrice nero-vestita ripercorre e a tratti impersona le tappe di una via crucis personale, ma via via allargata a metafora della sofferenza secolare di tutto un popolo, schiavo di fatto anche dopo essere stato liberato per legge. E perciò qui si chiude con le parole di Strange fruit, la “Marsigliese nera” con cui la Lady del blues uscì dai temi dell’amore e della fame e prestò l’urgenza del suo canto alla denuncia di un dolore non più solo suo. Applausi scroscianti dalla folta platea, mentre si pensa che intanto in Georgia un dead man di colore, forse innocente, sta per essere giustiziato.
Angela Felice